Tacchi alti, quali rischi per i piedi?
I tacchi alti sono una necessità per molte donne, importanti per trasmettere una certa immagine di se, per emanare bellezza, sicurezza, tanto da divenire imprescindibili in molte occasioni, anche troppe. A volte previsti dall'etichetta, a volte pretesi dal datore di lavoro, a volte necessari alla propria immagine, spesso abusati anche per un semplice cinema o per un giro di shopping. Il piede è concepito per supportare il corpo nei suoi spostamenti, distribuendo il carico ponderale, in statica, all'incirca 60% sul tallone e 40% sull'avampiede. In dinamica ovviamente le percentuali variano, ma la regola è sempre la stessa, è il calcagno a sopportare lo stress maggiore, mentre la punta del piede viene parzialmente risparmiata.
Il tacco semplicemente modifica queste percentuali, con il carico sull'avampiede che aumenta in maniera direttamente proporzionale al suo innalzarsi.
Una nota di storia.
Si dice che anni orsono, quando le donne partorivano molti figli durante l'età della fertilità , trascorrevano un gran numero di anni gravate da grandi pancioni che spostavano in avanti il loro baricentro. Di conseguenza si abituavano ad assumere una postura sbilanciata indietro. Quando improvvisamente arrivava la menopausa questo atteggiamento, ormai inveterato, causava loro importanti squilibri posturali con il rischio di cadute. I medici allora prescrivevano scarpe con un leggero tacco che spostava in avanti il loro baricentro riportando il corpo in una situazione di relativa stabilità .
Questo pare sia il morivo per cui la cultura popolare non sia riuscita a concepire scarpe da donna senza il benché minimo tacco, almeno fino all'avvento delle ballerine...
Tornando al nocciolo della questione uno o due centimetri non sono dannosi, valori più alti invece si.
La zona anteriore del piede, al contrario del tallone, è una struttura molto complessa, composta da ben ventuno ossa, piena di articolazioni, legamenti, cartilagini, inserzioni muscolari, decorso di numerosi tendini, radici nervose, vasi, borse sierose.
Il calcagno, invece, è un solo osso.
La scarpa con il tacco carica artificialmente questa zona costringendo tutte le sue componenti a lavorare tanto, troppo, a superare i limiti fisici per cui la natura le ha progettate.
Il carico sull'avampiede, durante il cammino, arriva solo quando siamo oltre la metà del passo, e fugge via rapidamente perché poco dopo l'altro arto prende contatto con il suolo caricandosi del peso corporeo.
Di fatto l'unico vero lavoro che svolge è quello propulsivo, quello che ci spinge in avanti, che comporta uno stress meccanico relativamente leggero.
Come tutti sappiamo robustezza e complessità sono concetti inconciliabili ed è per questo che l'evoluzione ha saggiamente suddiviso il piede in due parti.
Il retropiede semplice e robusto che svolge il "lavoro pesante" e l'avampiede fragile ma complesso che invece si incarica dell'altrettanto complesso atto propulsivo, permettendoci di percorrere a piedi distanze notevolissime senza alcun problema "meccanico", ovviamente quanto tutto "funziona".
La scarpa con il tacco semplicemente stravolge questo delicato meccanismo, questo studiato equilibrio, e la sua azione è tanto sconvolgente da causare dolori e fastidi, ad una struttura pensata per percorrere chilometri, anche dopo brevi tragitti.
Le articolazioni che collegano le dita al piede sono costrette ad assumere costantemente una innaturale posizione in flessione dorsale, lasciando scoperta la cartilagine articolare sulla quale per giunta va a gravare il peso del corpo. Le cartilagini quindi si consumano, le capsule articolari che le racchiudono si infiammano, sopraggiunge dolore e si innesca un importante processo artrosico che con il tempo deforma le articolazioni causando perdita di assialità delle dita.
Sotto queste articolazioni è presente un importante strato adiposo, importante per spessore e per la funzione protettiva che svolge. La sua presenza ed il suo trofismo sono essenziali, ma il carico eccessivo che è costretto a sopportare, passo dopo passo, per migliaia di passi, per tanti anni, fa si che si assottigli, fino quasi a scomparire nei casi più gravi, generando un vero e proprio urto delle articolazioni con il terreno e la comparsa prima di una placca ipercheratosica, un callo largo e spesso, poi di callosità profonde e dolorosissime nella zona metatarsale.
Il cammino "sulle punte" a cui costringono i tacchi fa si che involontariamente, con le dita dei piedi, ci si aggrappi al terreno e questo, assieme agli squilibri muscolari causati dalla innaturale posizione durante il passo e all'inevitabile slittamento del piede nella scarpa, che si schiaccia contro la punta, genera il tipico griffe delle dita, quella forma arcuata e rigida, che a sua volta porta a callosità apicali e dorsali sulle falangi e ad un continuo traumatismo delle unghie che pian piano divengono spesse e deformi, soprattutto quelle di primo, secondo e terzo dito.
Riguardo l'alluce valgo questo si definisce una patologia multifattoriale, ovvero che origina da fattori sia genetici che ambientali.
La scarpa con il tacco, spesso anche più o meno a punta, è il fattore ambientale principe nella genesi dell'alluce valgo, che quindi sopraggiungerà in forma non eccessivamente grave in assenza di familiarità, mentre in presenza di familiarità si manifesterà in maniera quasi invalidante.
Infine la regola d'oro dell'evoluzione, NULLA SI SPRECA. Questo assioma rientra anche nel nostro discorso. Dopo anni di tacchi infatti, soprattutto se di discreta altezza, il polpaccio si accorcia, nel vero senso della parola, motivo per cui le donne che li hanno portati provano notevole disagio nell'indossare scarpe con poco tacco o trovino impossibile utilizzare scarpe senza tacco, nel momento in cui decidono di "tornare a terra". Concludendo i tacchi giovano senz'altro all'immagine, regalano glutei prominenti, portamenti eleganti, l'illusione di gambe lunge e sinuose, in giovinezza, ma in assoluto sono il modo migliore per regalarsi una età adulta difficoltosa ed una dolorosissima vecchiaia.